La parte più difficile del viaggio è il ritorno. Lo è per chi va in vacanza, per chi viaggia per lavoro, per chi viaggia e basta, per chi viaggia e lavora. Tornare è brutto, bisognerebbe semplicemente non tornare. Oppure non tornare gli stessi di prima. Tornare è orribile e se da un lato il comfort materiale, fatto di lenzuola, cibo, asciugamani, pulizia, aperitivi, amici e famiglia è altissimo e piacevolissimo, dall’altro devi fare i conti con un senso di estraneità fortissimo.
Ciao, sono Ilaria! Ti scrivo di nuovo da latitudini a sud del mondo. L’idea è quella di trascorrere un mesetto in Brasile, ma ho trovato un bel volo ITA per Buenos Aires a un ottimo prezzo ed eccomi di nuovo qui, a scrivere dal co-working di Palermo Soho. Un paio di settimane in Argentina, prima di prendere un volo per Fortaleza. Se hai consigli su cosa fare e vedere in Brasile, scrivimelo nei commenti!
Se ti piacciono i miei racconti di viaggio, puoi abbonarti alla newsletter (riceverai in omaggio una consulenza con me) oppure puoi offrimi un aperitivo. Se vuoi dare un'occhiata al mio blog, lo trovi qui: www.ilariagianfagna.it
Ogni volta che torno, mi sento sempre più incompresa. Poi mi chiedo, se sono io il problema e quindi mi faccio delle domande e cerco di capire, perché non mi ritrovo più in alcune situazioni: a tirare tardi con gli amici di sempre, a salutare tutti quelli che incontri in piazzetta, a fermarmi a parlare del più e del meno con persone che non vedo da anni. La fruttivendola di Udine, mi guarda come se fossi una fotoreporter di guerra, appena tornata dal fronte. E forse lei è la più vicina a capire come mi sento veramente.
Ho notato che il momento in cui mi sento più a disagio è quando sento frasi del tipo: “Non posso”, “Non ho tempo”, “Magari”. Tutti commenti legati all’impossibilità di fare una determinata cosa, di realizzare un sogno, di vivere la vita diversamente. Quando sento queste frasi, sento una specie di gettito che mi sale dallo stomaco e vuole uscire dalla bocca. E a volte esce e dico frasi scomode. Magari alla persona che mi ha detto: “Non posso”, dico “Certo che puoi, se vuoi”.
Per rendermi conto subito dopo, che non necessariamente quello che penso io sia una verità assoluta. O che magari non sia adatto a quel momento. O a quella persona. O magari che il “volere è potere” non si addica a tutti. (Lo so è orribile dire “volere è potere” però il concetto è questo).
La mia esperienza personale mi ha portato a ragionare così: per tanti anni non ho potuto essere me stessa. Non credevo in me ed ero vittima del giudizio degli altri. Poi ho capito che la vita era mia e avrei potuto farne un po’ quello che volevo, pure viverla in maniera fighissima e ho cominciato a viaggiare tanto, ho vissuto all’estero, ho trasformato il mio lavoro in un’attività da svolgere completamente remoto e ho cominciato a prendere decisioni su aerei e autobus, pronunciando frasi del tipo: “Ma sì, lo compro”, “Dai stasera vado a Puerto Escondido”, “Ok vado al ritiro dei digital nomad in Guatemala”, “Ok faccio un trekking di 5 giorni in Perù”. Frasi ed esperienze che sarebbero state impensabili, solo qualche anno fa. Questa non organizzazione, non controllo, non sapere cosa prevede il mio viaggio, dove dormirò stanotte, cosa farò domani. Sono concetti tipici del viaggio lungo, ma devo dire che io ho sempre gestito così anche un viaggio breve, poca organizzazione e tanti consigli da local e altri viaggiatori lasciandosi trasportare dal momento. Tutte cose raggiunte con una fatica emotiva immensa, tentando di liberami del superfluo, dei giudizi, delle insicurezze, delle paure.
Io, E.T.
Ma torniamo al non sentirmi compresa. Quindi io sono passata dal pensare di essere intrappolata in alcune situazioni (lavoro, amicizie, doveri) al capire che avrei potuto scegliere il mio lavoro, con chi trascorrere il mio tempo e persino dove trascorrerlo. Senza dover dare troppe spiegazioni. Quindi adesso cosa succede? Ogni volta che sento “Non posso” mi si scatena dentro una rabbia pazzesca. Perché in base alla mia esperienza “Puoi”.
E mi sento in difficoltà, perché non capisco se sono io che ho fatto quel salto nel buio, mi sono buttata, per capire che dall’altro lato si sta meglio o se gli altri hanno ragione. Loro non possono, ma io sì e allora ho fatto bene a farlo, se era quello che volevo.
Non è che tutti vogliono viaggiare
Poi si innesca tutto un meccanismo diabolico. Perché giustamente, viaggiare non è mica il desiderio di tutti. Però magari vivere la vita un po’ come si vuole, realizzare i propri sogni, non farsi condizionare dagli altri, potrebbe applicarsi a tutti i settori. Non è che per forza uno deve mollare il lavoro, la casa, la città e andare dall’altra parte del mondo per dormire in camera con altre 5 persone che russano e mangiare in una cucina condivisa, dove ti devi rilavare tutto prima di prepararti da mangiare, per realizzare il proprio sogno. Che detta così, sembra tutto tranne che un sogno. E quindi magari tu non vuoi viaggiare, ma puoi cambiare lavoro, città, marito.
Però noto che quando lo dico, questa mia nuova maniera di vedere la vita, è disturbante e la maggior parte delle volte, la conversazione si conclude con me frustrata e l’altra persona pure. Perché nessuna delle due capisce l’altra.
Noto anche che quando sono in ostello, nella cucina condivisa, in un bar di Oaxaca chiacchierando con altri viaggiatori, non solo non esiste quel senso di impotenza, ma addirittura mi viene consigliato di osare di più. “Potresti andare in Brasile da sola”.
Noto anche che in Italia i “non posso” sono frequentissimi. Mentre in Australia, si sogna ancora. Qualcuno commentò questa newsletter, dicendo che noi italiani ci lamentiamo tanto, anche per una questione economica. Non abbiamo le stesse opportunità di cambiare, di trovare un altro lavoro, di fare un anno sabbatico, come un nord europeo o un australiano, che se si licenzia, trova subito un altro impiego. Quindi anche per questo siamo più cauti e ci nascondiamo (in certi casi giustamente) davanti ai non posso.
Anche se io ho comunque dei dubbi, perché secondo me possiamo più di quello che crediamo ma abbiamo paura e ci inventiamo una serie di scuse e io sono la regina di queste scuse.
Provincia vs metropoli
A volte quando torno a Udine, quasi mi sento travolta da questa impotenza e vorrei dire anche io: “Non posso”.
Un giorno stavo camminando con una mia amica, che ha mollato il lavoro per fare il giro del mondo, un sabbatico di anno. Come succede a Udine, ogni due passi, incontri qualcuno. E lei ha incontrato una conoscente, che dopo uno scambio di banalità, le ha chiesto: “Ma adesso tornerai alla vita vera?” E lì mi sono molto sorpresa. È incredibile come le avventure di una persona che ha viaggiato per tutto il Centro America e l’Asia, vivendo una serie di esperienze diverse tra di loro, tutte al di là dell’immaginato e della comfort zone, si riducano a un: “Adesso ritorni nello schema”. Secondo me, la conoscente aveva bisogno di sentirsi dire che sì, sarebbe tornata a fare il lavoro di prima, avrebbe ricominciato a vivere nel weekend e a lavorare durante la settimana.
A Milano, invece, non provo questa sensazione, mi sento quasi più compresa nella grande città, che nella provincia. Questo perché la grande città è scuola di vita, luogo di vittoria e di sconfitta, luogo dove ascoltare tante più storie. Mi ricordo che quando mi sono trasferita a Melbourne, dove vivono centinaia di migliaia di persone da tutto il mondo, ho cominciato veramente a rendermi conto delle vite incredibili degli altri. E ho trovato la forza per rendere incredibile anche la mia. O meglio, incredibile per me.
Ho ascoltato storie di avventura, coraggio, ma anche della forza di volontà, del partire con niente, parlo anche di popoli più svantaggiati degli italiani, che hanno trovato il modo di ricominciare dall’altra parte del mondo. Magari sono partiti da una cittadina in India, tipo una Udine indiana, per avere maggiori opportunità. E magari nel paesino in India, c’è chi ha detto “Non posso” e chi invece ha detto: “Io posso”.
Leggi il racconto precedente…
Se ti sta a cuore il tema del ritorno ti consiglio di leggere anche l’ultima newsletter di
“Chi mi conosce veramente?” e quella di “La fine del viaggio”.A mercoledì,
Ilaria
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Don't go back home
The hardest part of the journey is the return. It’s difficult for those on vacation, those traveling for work, those who just travel, and those who travel and work. Coming back is tough; one should simply not return. Or not return as the same person. Coming back is horrible, and while the material comforts of home—sheets, food, towels, cleanliness, aperitifs, friends, and family—are highly enjoyable, you have to deal with a strong sense of estrangement.
Hi, I’m Ilaria! I’m writing to you again from southern latitudes of the world. The idea is to spend a month in Brazil, but I found a great ITA flight to Buenos Aires at a great price and here I am again, writing from the co-working space in Palermo Soho. A couple of weeks in Argentina before taking a flight to Fortaleza. If you have any tips on what to do and see in Brazil, let me know in the comments!
If you like my travel stories, you can subscribe to my newsletter (you will receive a free consultation with me) or you can buy me a drink. If you want to check out my blog, you can find it here: www.ilariagianfagna.it
Every time I return, I feel increasingly misunderstood. Then I wonder if I’m the problem and start asking myself questions, trying to understand why I no longer fit into certain situations: staying up late with old friends, greeting everyone I meet in the square, stopping to chat about random things with people I haven’t seen in years. The fruit vendor in Udine looks at me as if I were a war photojournalist just back from the front lines. And perhaps she comes closest to understanding how I really feel.
I’ve noticed that the moment I feel most uncomfortable is when I hear phrases like: “I can’t,” “I don’t have time,” “Maybe.” All comments tied to the impossibility of doing something, fulfilling a dream, living life differently. When I hear these phrases, I feel a kind of surge from my stomach wanting to come out of my mouth. And sometimes it does, and I say uncomfortable things. Maybe to the person who told me: “I can’t,” I say, “Of course you can, if you want.”
Only to realize immediately after that what I think might not necessarily be an absolute truth. Or it might not be suitable for that moment. Or for that person. Or maybe that “wanting is power” doesn’t apply to everyone. (I know it’s horrible to say “wanting is power,” but that’s the concept).
My personal experience has led me to think this way: for many years, I couldn’t be myself. I didn’t believe in myself and was a victim of others’ judgments. Then I realized life was mine and I could do what I wanted with it, even live it in an amazing way. So I started traveling a lot, lived abroad, transformed my job into a fully remote activity, and began making decisions on planes and buses, saying things like: “Sure, I’ll buy it,” “Yes, tonight I’m going to Puerto Escondido,” “Okay, I’ll go to the digital nomad retreat in Guatemala,” “Alright, I’ll do a five-day trek in Peru.” These were experiences and decisions that would have been unthinkable just a few years ago. This lack of organization, lack of control, not knowing what my trip involves, where I’ll sleep tonight, what I’ll do tomorrow—these are typical concepts of long trips, but I must say that I’ve always managed even short trips this way, with little organization and many tips from locals and other travelers, letting myself be carried away by the moment. All these things were achieved with immense emotional effort, trying to rid myself of the unnecessary, judgments, insecurities, and fears.
Me, E.T.
But let’s get back to feeling misunderstood. So, I went from feeling trapped in certain situations (work, friendships, duties) to realizing I could choose my job, who to spend my time with, and even where to spend it. Without having to give too many explanations. So now what happens? Every time I hear “I can’t,” I feel a crazy rage inside. Because according to my experience, “You can.”
And I feel conflicted because I don’t understand if it’s me who took that leap into the unknown, dived in, to realize that the other side is better, or if others are right. They can’t, but I can, and then I did well to do it if that’s what I wanted.
Not everyone wants to travel
Then a diabolical mechanism sets in. Because rightly, traveling isn’t everyone’s desire. But maybe living life a bit the way you want, fulfilling your dreams, not being influenced by others, could apply to all areas. You don’t necessarily have to quit your job, leave your home, your city, and go to the other side of the world to sleep in a room with five other snoring people and eat in a shared kitchen where you have to wash everything before cooking, to fulfill your dream. Saying it like this, it sounds anything but a dream. And so, maybe you don’t want to travel, but you can change your job, city, spouse.
But I notice that when I say this, my new way of seeing life is disturbing, and most of the time, the conversation ends with both of us frustrated. Because neither of us understands the other.
I also notice that when I’m in a hostel, in the shared kitchen, in a bar in Oaxaca chatting with other travelers, not only does that sense of powerlessness not exist, but I’m even encouraged to dare more. “You could go to Brazil alone.”
I also notice that in Italy, “I can’t” is very frequent. While in Australia, people still dream. Someone commented on this newsletter, saying that we Italians complain a lot, even for economic reasons. We don’t have the same opportunities to change, to find another job, to take a sabbatical year, like a northern European or an Australian who, if they quit, quickly find another job. So for this reason, too, we are more cautious and hide (in some cases rightly so) behind “I can’t.”
Although I still have doubts because I think we can do more than we believe, but we’re afraid and invent a series of excuses, and I’m the queen of these excuses.
Small city vs. Big City
Sometimes when I return to Udine, I almost feel overwhelmed by this powerlessness and I also want to say: “I can’t.”
One day I was walking with a friend of mine who quit her job to travel the world for a year. As happens in Udine, every two steps, you meet someone. And she met an acquaintance who, after some trivial exchanges, asked her: “But now will you return to real life?” And there I was very surprised. It’s incredible how the adventures of someone who has traveled throughout Central America and Asia, living a series of different experiences, all beyond imagination and comfort zone, are reduced to: “Now you return to the scheme.” I think the acquaintance needed to hear that yes, she would go back to her previous job, start living only on weekends again, and work during the week.
In Milan, however, I don’t feel this sensation; I feel almost more understood in the big city than in the province. This is because the big city is a school of life, a place of victory and defeat, a place where you hear many more stories. I remember that when I moved to Melbourne, where hundreds of thousands of people from all over the world live, I really began to realize the incredible lives of others. And I found the strength to make mine incredible too. Or rather, incredible for me.
I heard stories of adventure, courage, but also of willpower, of starting with nothing. I’m also talking about people more disadvantaged than Italians who found a way to start over on the other side of the world. Maybe they left a small town in India, like an Indian Udine, for greater opportunities. And maybe in that small Indian town, some said, “I can’t,” and others said, “I can.”
If you want, you can do a lot of beautiful things. And not just here, but also in life.
You can:
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Chat GPT translated this article
Io sono team "se vuoi puoi" a prescindere, come premessa di vita necessaria in generale, ma credo anche in Italia ci sia una cultura particolarmente sfavorevole a questo stile di vita, sia per le condizioni economiche sicuramente peggiori di altri paesi dove l'anno sabbatico è un rituale di passaggio per tutti, come i nordics, sia per valori tradizionali a cui siamo ancora (secondo me troppo) legati. In pratica, credo che i sensi di colpa se lasci la famiglia e il lavoro fisso sull'italiano medio siano più alti che nel resto d'Europa.
Amo il luogo dove sono nata, ma in effetti troppo spesso provincia è chiusura.
Tanti tanti complimenti.