Sono seduta in una lounge, nell’aeroporto di Atlanta, Stati Uniti. Mancano un paio d’ore al mio volo, che mi riporterà a Milano. Dopo due anni è arrivato il momento di salutare il Sud America, per davvero.
Sto tornando a casa, ma io non ho una casa, cioè non ho un luogo dove ci sono tutte le mie cose che mi aspettano, le mie lenzuola pulite, i miei asciugamani e dei miei vestiti appesi. Non sto tornando a casa da un mini-pimer o da un bel ferro da stiro. Torno a casa in vari Airbnb, ostelli, casa di amici, casa dei miei, tante case con tante storie, ma non la mia. O magari solo un pezzetto della mia.
Ciao sono Ilaria! Sto per salire sull’ennesimo aereo. Per risparmiare, ma tanto, farò questa magnifica tratta: Buenos Aires, New York, Atlanta, Milano. La prima volta che ho messo piede in Sud America, è stato poco due anni fa, adesso torno in Italia per Natale e poi passerò un annetto in Australia, per motivi di lavoro e perché mi va.
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Allora stavo pensando al concetto di casa, che può sembrare una riflessione molto banale e anche un po’ patetica se vogliamo. “Mi sento a casa solo quando viaggio”, “Mi sento a casa solo quando sono lontana dall’Italia”, o peggio ancora, giuro di averla sentita più volte nella mia carriera da nomade digitale: “La mia casa è il mondo, sono cittadino del mondo”. Giuro che esistono persone che dicono queste cose.
La mia casa è stata uno zaino da 50L
E così ho realizzato che per gli ultimi due anni, la mia casa è stato il Sud America. La mia casa è stato un continente, è stato parlare spagnolo tutti i giorni, condividere camerate, cucine e bagni, parlare con sconosciuti da tutto il mondo, parlare con i local, parlare e parlare. Non solo in spagnolo, ma anche in inglese e anche in italiano con quei pochi compatrioti, che ho incontrato nel mio cammino che si sono anche loro avventurati in Sud America con lo zaino in spalla.
La mia casa è stata il mio zaino da 50 litri, il mio computer, il mio zainetto Kanken. il mio e-book, la camicetta a fiori e le Nike Airforce, valorizzavo quei pochi oggetti al mio seguito, rispetto a quei tanti oggetti nel mio box auto a Milano, tutti custoditi in scatole di cartone, nemmeno etichettate troppo bene.
Tutti quegli oggetti avevano contributo a rallentare la mia partenza. Oltre alla scusa: “Non ho tempo”, “Non ho soldi” o semplicemente “Non posso”, aggiungevo anche: “ma io ho una casa tutta bella arredata, cosa faccio con tutte queste cose?” Queste cose mi possedevano e mi impedivano di essere libera.
Da comoda a scomoda, ma felice
Se mi fermo a pensarci un attimo, mi sembra così assurdo come sia passata da tante comodità a tante scomodità, che sono sembrate sempre più casa, famiglia, routine. In questi anni ho normalizzato la stanchezza, le ore e ore in autobus, in aereo, svegliarmi prestissimo, andare a dormire prestissimo, pranzare con una scatoletta di tonno, cenare nel ristorante più carino del paese.
Era normale avere freddo, era normale avere caldo, era normale non sentire più le gambe, essere sudata, avere i capelli crespi e il sorriso sempre stampato in faccio. Era normale piangere davanti all’ennesimo tramonto, era normale voler stare in compagnia e voler stare da soli. Ore e ore da sola, in camera, in bus, in montagna, al mare, a cena. Ma soprattutto al ristorante, se possiamo chiamare ristorante un tavolino di plastica con una sedia malconcia, niente tovaglia, menù plastificato con i prezzi aggiornati a penna e musica dal vivo.
Casa era la signora che mi preparava il frullato di frutta fresca al mercato di Cusco ogni mattina, casa era lo studio di yoga ad in Guatemala, dove l’appuntamento era ogni mattina alle 6.45, casa era l’ostello di El Chaltén dove ogni sera organizzavamo qualcosa di diverso, un mix di tedeschi, svizzeri, italiani e argentini, nella birreria del paese, insieme ad altri appassionati di montagna, sicuramente ben più di me. Casa erano le strade sterrate di San Pedro de Atacama in Cile, casa era il signore che preparava il mango a Cartagena con sale, limone e peperoncino, le cantine di Mendoza, dove trascorrere ore e ore e sorseggiare vino e guardare la cordigliera delle Ande, le vie acciottolate di Antigua, lo studio di salsa ad Oaxaca, l’ostello di Puerto Escondido a due passi dal mare, il centro di yoga dove ho fatto un mese di volontariato: social media in cambio di vitto, alloggio e classi di yoga.
Ogni mattina mi svegliavo alle 5.15, vedevo il vulcano, il lago Atitlan, il cielo rosa e preparavo il caffè per me e per gli ospiti, prima di partecipare alla prima lezione di yoga della giornata. Quel luogo in mezzo alla giungla, abitato da personaggi strani, ne parlo in questa serie a puntate, era diventato misteriosamente casa.
Erano diventate familiari anche alcune dinamiche: il momento di preparare lo zaino prima di partire, gli addii, l’arrivo in una nuova città, un nuovo stato, la ricerca di un ostello, una lavanderia e un supermercato. Il primo giorno è dedicato alle commissioni e alla scoperta di cosa si fa nei dintorni. Anche come socializzare era diventato familiare. Mi siedo, faccio un sorriso, intervengo con una battuta oppure qualcuno mi attacca bottone.
E chi dice che sono sempre le stesse chiacchiere da ostello e da viaggiatori, per me si sbaglia. “Di dove sei?” e “Dove vai?” sono dei modi per attaccare bottone, alla fine tutti vogliono raccontare la propria storia che sembra unica, per poi accorgerti che tutti stanno lasciando qualcosa, tutti vogliono capire qualcosa e tutti stanno imparando a non organizzare e a lasciare andare.
Ed è ascoltando le storie degli altri, conversazioni, che partono da un semplice: “Che giro fai?” che ti puoi ispirare, puoi scoprire destinazioni nuove, puoi capire come viaggiano gli altri, a cosa danno priorità e magari cambiare il tuo itinerario. Ma anche un po’ il tuo percorso interiore. Perché il viaggio ti insegna ad essere flessibile, ad improvvisare, a cambiare, ad accettare.
Casa sono i confini
Casa sono stati gli aeroporti, gli aerei, le dogane, l’immigrazione, i voli di uscita dal paese acquistati così su due piedi, il caricabatterie dimenticato nell’ostello di Salta, la cassa della musica persa, calzini e magliette sparite dopo averle portate in lavanderia.
Casa è stato mettersi un paio di shorts e una camicetta e sentirsi carini, casa è stato avere tante ore a disposizione per leggere, per praticare yoga e per meditazione, per provare esperienze nuove e per chiacchierare ore con i nuovi amici a bordo piscina. Casa significava anche non sapere se era lunedì o venerdì, che giorno del mese e che cosa avrei fatto il giorno dopo.
Era quasi rassicurante, trovarsi a pensare, ma stasera dove dormo? Domani mi fermo a Semuc Champey o prendo direttamente il bus per Flores? Mille domande, tante scelte, decisioni da prendere che in quel momento sembrano così cruciali, per poi capire che non fa molta differenza andare in un luogo o in un altro, tanto succederanno ugualmente cose bellissime, incontrerai persone speciali e sarai felice di quello che vedrai.
Era anche familiare piangere, avere delle giornate no, essere stanca e volere stare nel letto a guardare Netflix. Insomma casa era essere se stessi, senza nessun condizionamento esterno del tipo: mamma, papà, fratello, amici, lavoro. Ci si conosceva tutti per la prima volta, tra sconosciuti. E ognuno poteva assomigliare un po’ di più alla versione che avrebbe voluto essere. Poi ovviamente c’erano anche degli arroganti insoportabili, ma quelli ci sono ovunque.
Insomma casa in questi ultimi due anni è stato il Sud America, quel calore, non solo fisico, quel sudore, solo fisico, quei paesaggi, quella gente, quella musica ad un volume sempre troppo alto, quelle tante parole pronunciate da altrettante persone, quel non voler sintetizzare nulla, quel senso che tutto si combina, tutto si può, quell’idea che non ti devi stressare, non ti devi preoccupare, il concetto di fila non esiste e nemmeno il nervosismo ad essa collegato.
Non esiste camminare veloci, rinunciare agli amici, mangiare di fretta, non vedere la famiglia, bere il caffè in piedi, dire “Allora io vado”, ma dove vai, dobbiamo parlare ancora un paio d’ore. Esiste un concetto di sapere dare il giusto valore al tempo e alle persone e saper anche annoiarsi, oziare, apprezzare un tramonto, un po’ di vento, la spiaggia, le palme, la caipiriña. Qui non si scambiano due chiacchiere e poi educatamente ci si saluta, qui una frase si può trasformare in un pomeriggio.
Casa per me è stato vivere lentamente, dare la priorità alle cose importanti, come il mare, i trekking, le nuotate nel lago freddo, vedere le cascate, le balene e i pinguini e ascoltare le storie degli altri. Invece che all’email, al tuo socio che ti rompe le balle, a tua mamma che vorrebbe essere nonna, al reel e alla video-chiamata. Tutto questo non ha nessuna importanza, se non puoi ammirare il monte Fitzroy da vicino, se non puoi sederti su una spiaggia in Brasile con il vento in faccia, se non osservare dal basso le imponenti rovine Maya, se non puoi vedere il Machu Picchu dopo 5 giorni di cammino, se non puoi esplorare l’Amazzonia a bordo di un’imbarcazione improbabile e il deserto di dune su un 4x4.
Quell’email, il traffico, la fila alle poste, non ha nessuna importanza, davanti a tutta questa bellezza. Ma poi esiste ancora la fila alle poste? Da quando ho cominciato a vendere i miei vestiti su Vinted, ho notato che la fila alle poste è ancora un must. Comunque adesso sappiamo che non ha nessuna importanza rispetto ai lama in Perù.
Leggi il racconto precedente…
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What is your home away from home?
I’m sitting in a lounge at Atlanta airport, United States. A couple of hours remain before my flight, which will take me back to Milan. After two years, it’s time to say goodbye to South America—for real.
I’m going home, but I don’t have a home. That is, I don’t have a place where all my belongings are waiting for me: my clean sheets, my towels, my clothes hanging neatly in a closet. I’m not going home to a blender or a fancy iron. I’m going home to various Airbnbs, hostels, friends’ homes, my parents’ house—a patchwork of places with stories, but not my home. Or maybe just fragments of it.
Hi, I’m Ilaria! I’m about to board yet another plane. To save money—lots of it—I’m taking this magnificent route: Buenos Aires, New York, Atlanta, Milan. The first time I set foot in South America was just two years ago. Now I’m heading back to Italy for Christmas, after which I’ll spend about a year in Australia—for work and because I simply want to.
We’re celebrating 2,000 subscribers to my newsletter! I started it a year ago to document my travel stories, and I see that the last two editions were particularly loved. To celebrate, you can subscribe (and get a free consultation with me as a bonus) or treat me to an aperitivo.
So, I’ve been thinking about the concept of home. It might seem like a trivial or even a bit of a cliché reflection. “I only feel at home when I travel,” “I feel at home only when I’m far from Italy,” or, worse yet—I swear I’ve heard this more than once in my career as a digital nomad—“The world is my home; I’m a citizen of the world.” Yes, people actually say these things.
My Home Was a 50L Backpack
And I realized that for the past two years, my home has been South America. My home was a continent; it was speaking Spanish every day, sharing dorm rooms, kitchens, and bathrooms; talking to strangers from all over the world; chatting with locals; and just talking—nonstop. Not just in Spanish, but in English and Italian, too, with the few compatriots I met on my journey who also ventured into South America with their backpacks.
My home was my 50L backpack, my laptop, my Kånken daypack, my e-reader, a floral blouse, and my Nike Air Forces. I cherished those few belongings with me far more than the many objects sitting in my storage unit in Milan, all packed away in cardboard boxes, some not even labeled properly.
All those possessions had once held me back from leaving. Along with excuses like “I don’t have time,” “I don’t have money,” or simply “I can’t,” I’d add, “But I have a fully furnished apartment—what will I do with all this stuff?” These things owned me, and they kept me from being free.
From Comfort to Discomfort, but Happy
When I stop to think about it, it seems so absurd how I transitioned from many comforts to many discomforts that gradually felt more like home, family, and routine. Over the years, I normalized exhaustion, long hours on buses and planes, waking up ridiculously early, going to bed just as early, eating tuna straight from the can, and dining at the fanciest restaurant in town—all in the same week.
It became normal to feel cold, to feel hot, to not feel my legs anymore, to be sweaty, to have frizzy hair, and to always wear a smile. It became normal to cry in front of yet another breathtaking sunset, to crave company, and to crave solitude. Hours upon hours alone—in my room, on the bus, in the mountains, by the sea, at dinner. Especially at dinner. Though calling it a “restaurant” feels generous when it’s just a plastic table and chair, no tablecloth, a laminated menu with prices updated in pen, and live music in the background.
Home was the lady who made me fresh fruit smoothies every morning at the Cusco market. Home was the yoga studio in Guatemala where I had a 6:45 AM class every morning. Home was the hostel in El Chaltén where every evening, a mix of Germans, Swiss, Italians, and Argentinians gathered at the local brewery, sharing stories and beers. Home was the dirt streets of San Pedro de Atacama in Chile. Home was the vendor in Cartagena preparing mango with salt, lime, and chili. Home was the wineries in Mendoza, sipping wine for hours while gazing at the Andes.
Familiar Routines, Unfamiliar Places
Certain dynamics also became familiar: packing my backpack before leaving, saying goodbye, arriving in a new city or country, searching for a hostel, laundry, and a grocery store. The first day in any new place was always about errands and discovering what there was to do nearby.
Even the way I socialized felt familiar: sitting down, smiling, cracking a joke, or having someone strike up a conversation with me.
People say hostel or traveler conversations are always the same, but I disagree. “Where are you from?” and “Where are you going?” are just icebreakers. In the end, everyone wants to share their story, which feels unique—only to realize that everyone is leaving something behind, trying to figure something out, and learning to let go.
Home Is at the Borders
Home became airports, airplanes, customs, immigration lines, last-minute exit flights purchased on the spot, chargers left behind in hostels, a lost Bluetooth speaker, socks and T-shirts that vanished after a trip to the laundromat.
Home was putting on a pair of shorts and a blouse and feeling cute. Home was having hours and hours to read, practice yoga, meditate, try new experiences, and chat endlessly with new friends by the pool. Home also meant not knowing if it was Monday or Friday, what day of the month it was, or what I’d be doing tomorrow.
There was something oddly reassuring about wondering, Where will I sleep tonight? Should I stop in Semuc Champey tomorrow or head straight to Flores? A thousand questions, countless choices, and decisions that, in the moment, felt so critical—only to realize later that it didn’t really matter whether I went one place or another. Either way, beautiful things would happen, I’d meet incredible people, and I’d be grateful for what I saw.
It also became normal to cry, to have bad days, to feel tired, and to stay in bed watching Netflix. In short, home was being myself, free from external expectations—no parents, siblings, friends, or work colleagues influencing me. Among strangers, we all met for the first time as the versions of ourselves we wanted to be. Of course, there were arrogant and insufferable people too, but they’re everywhere.
Slow Living
In these last two years, South America was my home. The warmth—not just physical—the sweat, the landscapes, the people, the music always a little too loud, the countless words spoken by countless people, the refusal to rush anything.
It was a place where everything seemed to fit together, where everything felt possible, where stress was unnecessary, and worrying didn’t make sense. Lines didn’t exist, nor did the impatience that comes with them.
There was no such thing as walking quickly, sacrificing friends, eating in a rush, skipping family time, drinking coffee while standing up, or saying, “Alright, I’m off.” Where are you going? We still have a couple of hours to talk.
Here, people understood the value of time and connection. They knew how to enjoy a sunset, a bit of wind, the beach, the palm trees, and a caipirinha. Here, a single sentence could turn into an entire afternoon.
Home, for me, was slow living—prioritizing what truly matters: the sea, the hikes, the cold swims in the lake, marveling at waterfalls, whales, and penguins, and listening to people’s stories. Not emails, work deadlines, or social media reels.
None of that mattered if you couldn’t see Mount Fitz Roy up close, sit on a windswept Brazilian beach, gaze at the towering Mayan ruins, marvel at Machu Picchu after a five-day trek, explore the Amazon by an improbable boat, or traverse a desert of dunes in a 4x4.
That email, the traffic, the line at the post office—none of it mattered in the face of such beauty.
Though, speaking of the post office, does the line still exist? Ever since I started selling my clothes on Vinted, I’ve noticed that waiting in line at the post office is still a thing. But now I know it’s irrelevant compared to watching llamas in Peru.
If you want, you can do a lot of beautiful things. And not just here, but also in life.
You can:
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Bellissimo Ilaria. Casa-viaggio 🙂
Hai un modo molto romantico di descrivere la vita nomade, e mi piace che non nascondi le difficolta' o i giorni 'no'. Da Italiana, ho sempre considerato 'casa' la casa dei miei. Dopo le esperienze all'estero o in altre citta' per studio, sono sempre tornata 'a casa'. Li' e' dove so che c'e' sempre un paio di pantofole ad aspettarmi. Per molto tempo dopo essermi trasferita a Melbourne ho vissuto in conflitto con l'idea di casa, pensando che sentirmi a casa a Melbourne tradisse la mia casa in Italia. Non avevo capito che fortunata sono ad avere ben DUE posti che posso chiamare casa. Tu ne avrai tantissimi! Ma quindi, in Italia, davvero non tornerai dai tuoi? In fondo, siamo tornati tutti... (ne ho scritto di recente)