Tempo di lettura: 14 minuti
L’altro giorno ero seduta nel co-working di Selina a Puerto Escondido, accanto a me il mio compagno di stanza iraniano, che vive in Germania e dorme sopra di me. Lui fa il programmatore, sta girovagando per il Centro America. Ci lamentiamo del lavoro. Conveniamo che si lavora troppo. Ancora si ragiona sulle otto ore al giorno, dal lunedì al venerdì. È ancora apprezzato il concetto di lavorare tanto e troppo. E in un contesto come Puerto, dove tutti lavorano da remoto e un po’ quando vogliono, è anacronistico pensare a concetti come “ufficio”, “settimana lavorativa”, “ferie”, “permessi”. Giungiamo alla conclusione che basterebbero quattro giorni alla settimana, oppure 4-5 ore al giorno.
Poi ci lamentiamo del fatto che il nostro lavoro non ci piace abbastanza. Nonostante ci richieda poche ore di lavoro al giorno e ci riesca bene, ci sentiamo schiacciati da questa incombenza. Per questo motivo non riusciamo a vivere una vita spensierata, pur apprezzando il fatto di avere una stabilità economica e una flessibilità ci permette di lavorare da qualsiasi luogo nel mondo. Della serie, non ci va mai bene niente.
Ciao sono Ilaria! E questa è la mia newsletter. Sono in Messico e da sabato mi prendo due settimane di ferie, voglio esplorare il Chiapas e parte dello Yucatan. Nelle prossime settimane, riceverai alcuni racconti dei miei viaggi passati in Asia. Mi sono resa conto che sono troppo connessa e devo imparare a staccare. Quindi sono sicura che capirai se mi concedo una pausa dal lavoro, dai social, dalla newsletter e anche da questo costante senso di colpa e di “dover fare”.
Intanto ti ricordo se ti piace il mio progetto, puoi sostenermi abbonandoti (cliccando sul tasto pledge). Incluso nell’abbonamento, ricevi una consulenza con me di un’ora. Possiamo parlare di viaggi, del viaggio da soli, del nomadismo digitale o dell’Australia. Oppure semplicemente, puoi offrirmi un aperitivo qui sotto.
Le cucine degli ostelli
“Dovresti uscire dalla tua comfort zone”, mi dice il mio compagno di stanza. Io lo guardo e gli dico: “Ma sei scemo? Sono in un co-working in Messico, indosso ogni giorno una maglietta bianca o nera, a seconda di quale è pulita e rispettivamente gli short grigi o arancioni, i capelli non mi stanno, non mi trucco più, ho appena finito di cucinarmi il pranzo in una cucina sporca e sguarnita e dormo in un letto a castello con te sopra. Non ti sembra che sia già uscita abbastanza dalla mia comfort zone?”
Scoppiamo a ridere. Effettivamente vista così, sembra che siamo i più flessibili del mondo. Anche se devo dire che c’è tanto disagio intorno a noi. Voglio dire, a casa io avevo delle posate, dei bei piatti, dei bicchieri e adesso mi ritrovo a chiedere una forchetta in reception, perché in cucina sono sparite tutte.
Che poi esisterà un modo per rendere le cucine comuni più belle, accoglienti e attrezzate? Mi hanno detto che devo puntare ai co-living, invece che agli ostelli. Proverò anche quello. Così esco un po’ dalla mia comfort zone. Anche se la parola co-living mi fa un po’ paura. Cioè, non è che devo essere più socievole? In ostello, invece, a volte mi rendo invisibile.
Il concetto di comfort zone è soggettivo
“Intendevo, uscire dalla tua comfort zone, per quanto riguarda il lavoro”, dice il mio compagno di stanza. Come dargli torto? Per la cronaca, il mio lavoro, ovvero Just Australia, la mia agenzia di visti e servizi per l’Australia, mi permette di viaggiare, lavorare da remoto, ha quel respiro internazionale ed è una realtà che sono tanto orgogliosa di aver creato. Mi piace l’idea di essere veramente esperta in qualcosa.
E devo ammettere che mi spaventerebbe lasciare tutto questo, oltre che una sicurezza economica, per buttarmi in un lavoro che mi appassionerebbe di più, magari fatto di viaggi e scrittura, come quello che sto facendo ora, mentre scrivo. E allora ho fatto diverse riflessioni. Allora ho capito che ognuno ha la sua comfort zone. L’asticella è diversa per tutti. Cioè forse per me, uscire dalla comfort zone significa cambiare lavoro o semplicemente ballare salsa o bachata. Io quando ballo mi sento morire dentro, mi sento così a disagio, questo corpo rigido e il maestro che mi dice: “Ma devi scioglierti un poco”. E vorrei rispondergli: “E grazie al c…o”. Poi una mia amica che legge la newsletter mi ha detto che è normale sentirsi impacciati, la mente si deve abituare a questa nuova attività che è il ballo. Per qualcun altro magari, andare al di là della comfort zone, significa fare un weekend da solo in una capitale europea.
Due storie
Arrivo in ostello a Oaxaca, entro in camera e conosco la mia nuova amica brasiliana. Lei è psicologa. Lavora quattro giorni a settimana, gli appuntamenti li prende solo dal martedì al venerdì. Avevo appena finito di parlare di lavoro con il mio nuovo amico iraniano a Puerto Escondido e adesso mi ritrovo a parlare dello stesso tema a Oaxaca. Mi sembra molto interessante il suo metodo. E io mi rendo conto di avere un modo di lavorare un po’ più dispersivo del suo e che forse dovrei darmi degli orari o dei giorni. Perché con questa scusa che lavoro per me stessa, non stacco veramente mai, lavoro un po’ tutti i giorni. La mia amica brasiliana mi racconta che qualche anno fa, si era sentita sopraffatta dal lavoro ed è andata a vivere per un anno in una comune in mezzo all’Amazzonia. Faceva la volontaria. Quando è tornata ha rivoluzionato il suo modo di lavorare: quattro ore a settimana. Ora mi pare contenta.
Il mio nuovo amico svizzero, invece, sta viaggiando da un paio di mesi, ha imparato lo spagnolo, non sa quanto tempo starà in giro e non sa nemmeno quali saranno le sue prossime tappe. Però oh come organizzano gli svizzeri lo zaino, nessuno. Faceva il carpentiere e poi ad un certo punto si è stufato e ha mollato il lavoro per viaggiare. Era troppo stressato, dormiva male, era triste. Adesso è qui, si è iscritto ad una scuola di spagnolo, viene a lezione di bachata con me, fa le escursioni, legge un libro con calma, si cucina piatti deliziosi. Anzi ha capito che vuole fare lo chef e quindi prende questo viaggio, anche come un viaggio culinario, assaggiando tutti i piatti che gli si propongono.
Poi siamo andati a bere una birra tutti e tre insieme, con tre storie diverse ma simili.
Raccontiamo tutti la stessa storia
E quindi mi sono resa conto che noi in viaggio raccontiamo tutti la stessa storia. La consapevolezza arriva spesso dal lavoro.
Storia numero 1: facevamo un lavoro che non ci piaceva o ci provocava stress. Lo abbiamo mollato e siamo partiti per un viaggio con un biglietto di sola andata.
Storia numero 2: abbiamo deciso di fare il nostro lavoro da remoto, bello o brutto che sia, per vivere una vita meno monotona e meno convenzionale.
Storia numero 3: ci siamo lasciati, siamo disperati ma non abbiamo ancora capito che era un/una coglione/a e alla fine del viaggio lo capiremo.
Storia numero 4: abbiamo vissuto un evento traumatico e in merito non ho niente da aggiungere perché lo trovo un tema molto delicato.
Storia numero 5: nessuna delle precedenti, però abbiamo comunque pensato che la vita è breve: fuck it, let’s travel the world. In inglese suonava meglio.
La mia nuova amica psicologa mi ha detto: “Il lavoro dovrebbe essere semplicemente il prolungamento di noi stessi. Ad esempio, se a te piace scrivere, tu dovresti fare la scrittrice o la giornalista. Qualsiasi altra cosa, ti renderebbe insoddisfatta alla lunga. E quindi tutti quelli che fanno un lavoro che non corrisponde alla propria persona, ne escono sopraffatti”.
Non lo so, c’è molto da riflettere in tutte queste storie che si ripetono e che mi sembrano tutte uguali. Sono tutte storie di insoddisfazioni professionali e personali, che vogliono riscattarsi con un lungo viaggio. Io sarò di parte, ma ammiro tutte queste persone che partono da sole, con lo zaino e il biglietto di sola andata. È veramente difficile, lasciare andare e abbandonare le certezze (tipo i bicchieri belli e le posate per mangiare) in nome di una vita senza controllo.
E ammiro soprattutto chi viaggia senza lavorare. Mi sembra più difficile, di fare il nomade digitale. Per me il lavoro è quasi un’alibi, una protezione, che mi permette di non pensare veramente, mi permette di dire no a qualsiasi invito. “Scusa, devo lavorare”. Invece chi non lavora, deve imparare ad essere assertivo. E poi quanto tempo ha per pensare a se stesso? Poretto.
Questa settimana ti consiglio la newsletter di
si chiama e parla di media e innovazione, mi piace perché ad ogni email imparo qualcosa di nuovo.Leggi il racconto precedente…
A mercoledì,
Ilaria
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Everyone has their own comfort zone
🇦🇺 The other day I was sitting in the Selina co-working space in Puerto Escondido, next to me my Iranian roommate who lives in Germany and sleeps above me. He's a programmer, roaming around Central America. We complain about work. We agree that we work too much. We still debate the eight-hour workday, from Monday to Friday. The concept of working so much and too hard is still appreciated. And in a context like Puerto, where everyone works remotely and a bit whenever they want, it's anachronistic to think about concepts like "office," "workweek," "vacation," "leave." We conclude that four days a week would be enough, or 4-5 hours a day.
Then we complain that we don't like our work enough. Even though it only requires a few hours a day and we're good at it, we feel overwhelmed by this obligation. That's why we can't live carefree lives, even though we appreciate having economic stability and flexibility that allows us to work from anywhere in the world. It's like, we're never satisfied with anything.
Hi, I'm Ilaria! And this is my newsletter. I'm in Mexico and from Saturday I'm taking two weeks off, I want to explore Chiapas and part of the Yucatan. In the coming weeks, you'll receive some stories from my past travels in Asia. I realized I'm too connected and I need to learn to disconnect. So I'm sure you'll understand if I take a break from work, social media, the newsletter, and even from this constant sense of guilt and "must do."
Meanwhile, I remind you if you like my project, you can support me by subscribing (by clicking on the pledge button). Included in the subscription, you receive an hour consultation with me. We can talk about travel, solo travel, digital nomadism, or Australia. Or simply, you can buy me a drink down below.
Hostel Kitchens
"You should get out of your comfort zone," my roommate says to me. I look at him and say, "Are you crazy? I'm in a co-working space in Mexico, I wear a white or black t-shirt every day, depending on which one is clean, and respectively gray or orange shorts, my hair is a mess, I don't wear makeup anymore, I just finished cooking lunch in a dirty and bare kitchen, and I sleep in a bunk bed with you above. Doesn't it seem like I'm already out of my comfort zone?"
We burst out laughing. Effectively seen like this, we seem like the most flexible people in the world. Although I have to say there's a lot of discomfort around us. I mean, at home, I had utensils, nice dishes, glasses, and now I find myself asking for a fork at the reception, because they've all disappeared from the kitchen.
And will there be a way to make common kitchens nicer, cozier, and better equipped? They told me I should aim for co-living spaces, instead of hostels. I'll try that too. So I step out of my comfort zone a bit. Although the word co-living scares me a bit. I mean, do I have to be more sociable? In a hostel, sometimes, I become invisible.
The concept of comfort zone is subjective
"I meant, get out of your comfort zone, regarding work," my roommate says. How can I disagree with him? For the record, my job, Just Australia, my visa and services agency for Australia, allows me to travel, work remotely, has that international breath, and it's a reality I'm so proud to have created. I like the idea of being truly an expert in something.
And I have to admit that I would be scared to leave all this behind, besides an economic security, to throw myself into a job that would passion me more, maybe made of travels and writing, like what I'm doing now, while I'm writing. So I've made several reflections. Then I realized that everyone has their own comfort zone. The bar is different for everyone. I mean, maybe for me, getting out of the comfort zone means changing jobs or simply dancing salsa or bachata. When I dance, I feel like dying inside, I feel so uncomfortable, this stiff body and the teacher telling me, "You have to loosen up a bit." Then a friend of mine who reads the newsletter told me that it's normal to feel awkward, the mind has to get used to this new activity which is dancing. For someone else maybe, going beyond the comfort zone means spending a weekend alone in a European capital.
Two stories
I arrive at a hostel in Oaxaca, I enter the room and meet my new Brazilian friend. She's a psychologist. She works four days a week, she only takes appointments from Tuesday to Friday. I had just finished talking about work with my new Iranian friend in Puerto Escondido and now I find myself talking about the same topic in Oaxaca. I find her method very interesting. And I realize I have a somewhat more scattered way of working than hers and that maybe I should set myself some hours or days. Because with this excuse that I work for myself, I never really switch off, I work a bit every day. My Brazilian friend tells me that a few years ago, she felt overwhelmed by work and went to live for a year in a commune in the middle of the Amazon. She was a volunteer. When she came back she revolutionized her way of working: four hours a week. Now she seems happy.
My new Swiss friend, on the other hand, has been traveling for a couple of months, has learned Spanish, doesn't know how long he'll be around, and doesn't even know what his next stops will be. But oh, how the Swiss organize their backpacks, no one. He was a carpenter and then at some point he got tired and quit his job to travel. He was too stressed, slept badly, was sad. Now he's here, he's enrolled in a Spanish school, he comes to bachata class with me, goes on excursions, reads a book calmly, cooks delicious dishes. In fact, he realized he wants to be a chef and so he takes this trip, also as a culinary journey, tasting all the dishes offered to him.
Then the three of us went for a beer together, with three different but similar stories.
We all tell the same story
And so I realized that we all traveling tell the same story. Awareness often comes from work.
Story number 1: we had a job we didn't like or caused us stress. We quit it and went on a trip with a one-way ticket.
Story number 2: we decided to do our job remotely, good or bad, to live a less monotonous and less conventional life.
Story number 3: we broke up, we're desperate but we haven't figured out yet that he/she was a jerk and we'll figure it out at the end of the trip.
Story number 4: we experienced a traumatic event and about that, I have nothing to add because I find it a very delicate issue.
Story number 5: none of the above, but we still thought life is short: fuck it, let's travel the world. In English it sounded better.
My new psychologist friend told me, "Work should simply be an extension of ourselves. For example, if you like writing, you should be a writer or a journalist. Anything else would make you dissatisfied in the long run. And so all those who do a job that doesn't correspond to their person, end up overwhelmed by it."
I don't know, there's a lot to reflect on in all these stories that repeat themselves and that all seem the same to me. They're all stories of professional and personal dissatisfaction, which want to redeem themselves with a long journey. I may be biased, but I admire all these people who leave alone, with a backpack and a one-way ticket. It's really hard, letting go and abandoning certainties (like nice glasses and cutlery) in the name of an uncontrollable life.
And I especially admire those who travel without working. It seems more difficult to me than being a digital nomad. For me, work is almost an alibi, a protection, that allows me not to really think, it allows me to say no to any invitation. "Sorry, I have to work." Instead, those who don't work have to learn to be assertive. And then how much time do they have to think about themselves? Poor thing.
If you want, you can do a lot of beautiful things. And not just here, but also in life.
You can:
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Mi riconosco in tutto quello che hai scritto e riconosco che al momento sto facendo un lavoro che non è l'estensione di me stessa come dice la tua amica psicologa. Allo stesso tempo credo che ogni lavoro abbia il suo lato di imperfezione, quel qualcosa che lo rende "lavoro" e che pur quanto sia bello e soddisfacente rimane tale. So cosa voglia dire settimana lavorativa, perché in questo momento lo sto vivendo e passare da essere semi nómade a questo non è facile, cado nella lamentela, nella lagna, nel "voglio scappare ora" ma poi mi ricordo che il mio grande obiettivo è altro e quindi dico "scappero ma con un bel piano" 😊😊 grazie ❤️❤️🌷🌷
"ammiro soprattutto chi viaggia senza lavorare. Mi sembra più difficile, di fare il nomade digitale. Per me il lavoro è quasi un’alibi, una protezione, che mi permette di non pensare veramente, mi permette di dire no a qualsiasi invito. “Scusa, devo lavorare”."
Io sono in viaggio da inizio gennaio e starò in giro fino a fine aprile.
Mi sono data fino a fine febbraio per non lavorare –> con buona pace della psicologa brasiliana, nonostante quando lavori io faccia una cosa bellissima ed edificante, davvero, sto da dio non facendo nulla e sono al terzo sabbatico della vita, ho iniziato quando online non lavorava nessuno e quindi lavoravo negli ostelli in giro per il Sudamerica #pleistocene 😅 io non voglio fare la ND, è una rottura cercare internet funzionale e spazi silenziosi e sacrificare X ore al giorno al lavoro davanti a uno schermo.
Vuoi mettere la libertà?
Io di mio ho sempre messo in freezer o mollato i lavori che avevo, se potevo, in generale viaggiavo tra un espatrio e l'altro, dopo aver lasciato un paese e prima di andare a vivere in un altro.
Anche ora comunque non prenderò nuovi clienti di language coaching fino a fine aprile, anche perché sono in un fuso pessimo per lavorare con l'Europa :)
Io sono un mix delle storie 4 e 5. Un altro evento 4 recente ha lanciato sia me che il mio compagno di nuovo sulla strada. I reminder dell'impermanenza sono roba forte e istruttiva.
Piacere di conoscerti/leggerti, intanto 💜
PS: concordo che darsi struttura e orari è un salvavita e salva salute contro la hustle culture