Le categorie non mi piacciono. Così diciamo tutti e poi finiamo per essere parte di una categoria, magari nemmeno la migliore. Io da qualche anno a questa parte, ho scelto la mia categoria: “nomade digitale”. Un professionista che viaggia e lavora allo stesso tempo. Non ha bisogno o voglia di un ufficio, ma solo di un computer e una connessione wi fi e lo può fare da qualsiasi parte del mondo. Lo può fare talmente tanto da qualsiasi parte del mondo, che a volte va in crisi nella scelta della destinazione.
Ma come sono diventata nomade digitale e perché lo racconto in questa newsletter. Intanto ti ricordo che sei un* degli oltre 700 lettori di queste parole. Ho iniziato a scrivere questa newsletter ad agosto, in una finca colombiana, un edificio coloratissimo, dove si produce il caffè. Un po’ per caso e un po’ per curiosità e adesso mi sono affezionata a te e alla mia newsletter. Se ti piace il mio progetto, puoi sostenermi abbonandoti (cliccando sul tasto pledge). Incluso nell’abbonamento, ricevi una consulenza con me di un’ora. Possiamo parlare di viaggi, del viaggio da soli, del nomadismo digitale o dell’Australia. Oppure semplicemente, puoi offrirmi un aperitivo qui sotto.
Come sono diventata nomade digitale e perché
Dicevamo, come sono diventata parte di questa categoria, per me così affascinante. Erano sempre gli altri a partire, erano sempre gli altri con questi computer sulle ginocchia, i capelli bagnati, una canottiera bianca e le havaianas, tra una call e un’altra. Con lo smoothie verde accanto al laptop, due chiacchiere con il vicino di scrivania, che poteva essere il tavolo di un bar o di un ostello. Io durante i miei viaggi di qualche settimana, nel Sud Est Asiatico, zaino in spalla, li guardavo questi altri e dentro di me pensavo: “boh”. Che poi era un “boh” estasiato, della serie, “ma come fanno?” Soprattutto, “come fanno ad essere così tranquilli e così fighi mentre lo fanno?” Questi stanno lavorando da una spiaggia in Thailandia, senza battere ciglio. “Boh”.
Vivevo in Australia, allora e quando potevo, facevo una scappata in Asia. Un giorno, mentre mi trovavo a Luang Prabang in Laos, osservo l’ennesimo nomade digitale che sembra soddisfatto della sua vita. E in quell’attimo, mi rendo conto che io ero già una nomade digitale, senza saperlo. Potevo già lavorare da remoto. E avevo già scritto articoli e pubblicato post da teatri, musei, bar, ostelli, parchi, letti, aeroporti, treni, panchine. Senza rendermene conto, negli anni, mi ero creata un lavoro e un modo di lavorare flessibile. Adesso dovevo solo trovare il coraggio di farlo in Laos o comunque altrove, rispetto alla mia residenza.
Così decido di fare un esperimento, avrei provato a viaggiare e lavorare per un mese nelle Filippine e a Bali, con biglietto di andata e di ritorno. Io quando ho un’idea nuova, vengo sempre sommersa dalla poca fattibilità della cosa, perché penso in grande. Ad esempio, decido di fare la nomade digitale e penso: devo vendere tutto, dire addio a tutti, partire per il giro del mondo e non tornare mai più. Non deve essere tutto così estremo e drammatico, dall’inizio. Ma io la vedo così, sono già proiettata alla fine del progetto, dimenticandomi che c’è un processo nel mezzo, nemmeno tanto facile. Quindi meglio iniziare a step, senza troppe aspettative e cercando di essere meno esigente con me stessa. L’esperimento riesce e anche bene e da allora mi sono ritrovata un po’ per caso e un po’ per curiosità a lavorare dappertutto.
I co-working sono questi luoghi meravigliosi
Quando sono andata in Sud America, con il biglietto di sola andata, non immaginavo che così tanta gente lavorasse da remoto, che ci fossero così tanti digital nomad e così tanti co-working. Veramente, sono dappertutto, persino in Patagonia, nelle zone dove la connessione è più instabile, nel bar dove non ti aspetteresti mai, al pub vicino a chi ha alzato un po’ il gomito, c’è sempre una persona al computer, che sta lavorando. Così come nelle spazi comune degli ostelli, sul letto in camerata, in cucina o nel giardino. E poi ci sono i co-working, questi luoghi meravigliosi.
Ora che ci penso, io ho sempre lavorato in un open-space quando facevo la giornalista, lavoravo in redazione e quando ho affittato la mia prima scrivania ho scelto uno spazio condiviso a Udine. Basta, ho deciso che ero una nomade digitale ante-litteram. Ma andiamo avanti, a Milano e a Melbourne esistono dei co-working esteticamente bellissimi e ho spesso lavorato in questi spazi, che a me piacciono, anche per quel rumore bianco di fondo, c’è sempre qualcuno che parla al telefono, che scrive al computer, che beve un caffè.
In Sud America non mi sarei immaginata un’organizzazione tale. Invece esistono molti co-working, di design, con tè e caffè incluso, cucina, sale riunioni, stampante e phone-boot e tutto quello di cui puoi avere bisogno sul posto di lavoro. Complice di questo boom è sicuramente Selina, la catena di ostelli pensata proprio per i nomadi digitali. Gli ostelli Selina sono luoghi esteticamente molto belli, immersi in paesaggi spettacolari o nei quartieri giusti delle grandi città, c’è il bar, la piscina, il ristorante, uno spazio per fare yoga e il co-working appunto. E puoi partecipare ad un sacco di attività organizzate da Selina, per socializzare con gli altri viaggiatori.
Quando prenoti una notte in ostello puoi decidere se acquistare anche l’ingresso al co-working oppure puoi fare un pacchetto mensile (che è quello che scelgo io di solito) che si chiama “colive” e ti permette di spostarti tra più location e avere l’accesso al co-working incluso nel prezzo.
Anche la storia di Selina, che attualmente è quotata in borsa, è molto romantica. Nel 2007, i co-fondatori di Selina, Rafael Museri e Daniel Rudasevski, vivevano a Pedasí, una piccola località di pescatori a Panama. Si occupavano di progetti immobiliari e nel frattempo creavano una community di residenti e viaggiatori, che erano appunto i primi nomadi digitali. Da allora, Selina è cresciuta ed è ancora in continua espansione, con l'apertura di nuove sedi in tutto il mondo.
I nomadi digitali sembrano felici
In Centro e Sud America si incontrano tantissimi americani, c’è stato un boom dopo la pandemia e molti preferiscono lavorare da luoghi meravigliosi sul mare o vicino alla natura, piuttosto che nelle grandi città e andare in ufficio dal lunedì al venerdì. Così dopo il lavoro staccano e cinque minuti sono sulla tavola da surf, oppure a fare l’aperitivo in spiaggia, oppure sul tappetino di yoga.
Con questo stile di vita, hai più tempo per te stesso, per fare sport e per stare a contatto con la natura. Hai obiettivamente meno cose da fare, non hai impegni, burocrazia, è una vita sospesa. Devi solo pensare alla spesa, alla lavanderia (che non fai nemmeno tu perché costa talmente poco che non ne vale la pena), alla doccia e alle tue prossime destinazioni, oltre che alle escursioni da fare. Hai bisogno di meno oggetti materiali, anzi non puoi comprare nulla perché nello zaino non ci sta. E hai meno preoccupazioni, perché vivi la vita più lentamente.
In questi mesi, a parte stupirmi della bellezza di questi co-working, ho fatto due riflessioni. La prima è: “Ma quanta gente fa questa vita?” La risposta è: tantissima. Io mi sono sempre sentita poco compresa, per il mio interesse verso il nomadismo digitale. Ma quando ho scoperto che c’è un sacco di gente da tutto il mondo, che lavora da ogni angolo della terra, con un computerino sulle ginocchia, pronto a sacrificare le comodità per fare di ogni giorno della tua vita un’avventura, mi sento meno sola. E la solidarietà che si crea tra questi nomadi digitali, perché alla fine siamo tutti soli, in un paese che non è il nostro e vogliamo scambiare quattro chiacchiere, trovare nuovi amici, nuovi amori e sognare che la vita non sia solo pagare le bollette.
La seconda cosa che ho pensato è: “Ma quanto sono felici questi nomadi digitali?” Cioè con quanta naturalezza, viviamo così. Dico viviamo, perché finalmente anche io sono una di loro. Ti ricordi che all’inizio del racconto dicevo che erano sempre gli altri a partire? E adesso io sono una di loro, lavoro da un co-working sul lago Atitlan in Guatemala, poi sono a Cusco in uno spazio attrezzato, dove si vedono tutti i tetti della città e le montagne sacre, poi sono a Palermo, il quartiere hipster di Buenos Aires, pronta a chiudere il computer e prepararmi per assistere ad uno spettacolo di tango. Mi sembra così incredibile e così bello che ci venga data l’opportunità di lavorare ovunque, che ci siano dei luoghi attrezzati per questo e che ci sia una comunità di viaggiatori, che lo fa in una maniera totalmente spontanea e naturale. Bello, no?
Ma come lo fai?
Mi ricordo un giorno a Buenos Aires, ho conosciuto un ragazzo americano, fa il programmatore. Eravamo una decina, tutti seduti allo stesso tavolo condiviso del co-working, tutti con il proprio computer, chi le cuffie, chi il doppio schermo, chi il mouse, chi il sostegno per il pc, ognuno a modo suo. Tutti di una nazionalità diversa. Tutti con una storia diversa. Io avevo lasciato l’Italia una settimana prima, con il mio biglietto di sola andata. Ero una bambina in questo mondo. Eppure, avevo già socializzato con tutta la tavolata. E quindi ogni tanto, facevamo qualche battuta durante il lavoro. Come si fa tra colleghi. Solo che noi non lo eravamo. “Ma come lo fai?” Mi chiede il ragazzo americano, arrivato a Buenos Aires la sera prima, con l’intenzione di vivere qualche mese in Sud America. E io gli chiedo: “Cosa?” e lui mi risponde: “Ad essere così serena, si vede che viaggi da tanto!” In realtà, avevo ancora il jet lag e avevo appena iniziato la mia prima avventura senza biglietto di ritorno. Semplicemente avevo trovato la mia dimensione, quella che cercavo da tanto e il fatto di non trovarla o di non accettare che era quella per quarant’anni mi aveva fatto sentire così diversa. E adesso in quel co-working, in quel luogo meraviglioso a Palermo Soho, il quartiere hipster di Buenos Aires, mi sentivo a mio agio. Ma non solo io, anche tutti gli altri, che forse hanno fatto la stessa fatica che ho fatto io, prima di accettare, che va bene anche vivere una vita non convenzionale.
Questa settimana, ti consiglio la newsletter di
praticamente una collega nomade che a 50 anni ha lasciato il posto fisso, vive e lavora viaggiando, come racconta lei stessa nella sua bellissima newsletter .Leggi il racconto precedente…
A mercoledì,
Ilaria
Se vuoi, puoi fare un sacco di cose belle. E non solo qui, anche nella vita. Puoi:
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🇦🇺 I don't like categories. We all say that, and then we end up being part of a category, perhaps not even the best one. For a few years now, I have chosen my category: "digital nomad." Professionals who travel and work at the same time. They don’t need or want an office, just a computer and a Wi-Fi connection, and they can do it from anywhere in the world. They can do it so much from anywhere in the world that sometimes they struggle with choosing the destination.
But how did I become a digital nomad, and why am I telling this in this newsletter? First of all, I remind you that you are one of over 700 readers of these words. I started writing this newsletter in August, in a Colombian finca, a colorful building where coffee is produced. A bit by chance and a bit out of curiosity, and now I am connected to you and my newsletter. If you like my project, you can support me by subscribing (by clicking the pledge button). Included in the subscription, you receive a one-hour consultation with me. We can talk about travel, solo travel, digital nomadism, or Australia. Or, you can simply offer me a drink below.
How I Became a Digital Nomad and Why
As I mentioned, how did I become part of this category that I find so fascinating? The others were always the ones leaving, the ones with these computers on their laps, wet hair, a white tank top, and flip-flops, between one call and another. With a green smoothie next to the laptop, exchanging a few words with the neighbor at the desk, which could be a bar table or a hostel. During my trips of a few weeks in Southeast Asia, backpack on my back, I observed these others, and in my mind, I thought "how do they do it?" Especially, "how can they be so calm and cool while doing it?" These people are working from a beach in Thailand without batting an eye. "
I lived in Australia at the time, and whenever I could, I took a trip to Asia. One day, while I was in Luang Prabang, Laos, I observed yet another digital nomad who seemed satisfied with his life. And in that moment, I realized that I was already a digital nomad, without knowing it. I could already work remotely. I had already written articles and published posts from theaters, museums, bars, hostels, parks, beds, airports, trains, benches. Unconsciously, over the years, I had created a job and a flexible way of working. Now I just had to find the courage to do it in Laos or somewhere else other than my residence.
So I decided to conduct an experiment: I would try to travel and work for a month in the Philippines and Bali, with a round-trip ticket. When I have a new idea, I am always overwhelmed by the seeming impracticality of it because I think big. For example, I decide to become a digital nomad and think: I have to sell everything, say goodbye to everyone, go around the world and never come back. It doesn't have to be all that extreme and dramatic from the beginning. But that's how I see it; I'm already projecting to the end of the project, forgetting that there is a process in the middle, not even that easy. So it's better to start step by step, with fewer expectations, and trying to be less demanding with myself. The experiment succeeds quite well, and since then, I have found myself working from everywhere a bit by chance and a bit out of curiosity.
The co-working spaces are wonderful places
When I went to South America with a one-way ticket, I didn't imagine that so many people worked remotely, that there were so many digital nomads, and so many co-working spaces. Really, they are everywhere, even in Patagonia, in areas where the connection is more unstable, in the bar where you would never expect, at the pub near someone who has had a bit too much to drink. There is always someone on the computer, working. Just like in the common areas of hostels, on the bunk bed, in the kitchen, or in the garden. And then there are the co-working spaces, these wonderful places.
Now that I think about it, I have always worked in an open space when I was a journalist; I worked in the newsroom, and when I rented my first desk, I chose a shared space in Udine. Enough; I decided that I was a digital nomad before it was even a term. But let's move on; in Milan and Melbourne, there are aesthetically beautiful co-working spaces, and I have often worked in these spaces, which I like, even for that white noise in the background. There is always someone talking on the phone, typing on the computer, drinking coffee.
In South America, I wouldn't have imagined such organization. Instead, there are many co-working spaces, beautifully designed, with tea and coffee included, a kitchen, meeting rooms, a printer, and a phone booth—everything you may need at your workplace. A catalyst for this boom is undoubtedly Selina, the hostel chain designed specifically for digital nomads. Selina hostels are aesthetically beautiful places, immersed in spectacular landscapes or in the right neighborhoods of big cities. There is a bar, a swimming pool, a restaurant, a space for yoga, and the co-working space, of course. And you can participate in many activities organized by Selina to socialize with other travelers.
When you book a night in a hostel, you can decide whether to buy access to the co-working space or opt for a monthly package (which is what I usually choose), called "colive," allowing you to move between multiple locations with access to the co-working space included in the price.
Selina's story, which is currently listed on the stock exchange, is also quite romantic. In 2007, Selina's co-founders Rafael Museri and Daniel Rudasevski were living in Pedasí, a small fishing town in Panama. Through running real estate projects and developing the town, they began to build a tight-knit social circle comprised of locals and travelers alike. It became clear to them that they were working on something special, and just like that, the first Selina was born in Venao, a surf town near Pedasí in 2014. Since then, Selina has grown and is still growing all around the world.
Digital nomads seem happy
In Central and South America, you meet many Americans; there has been a boom after the pandemic, and many prefer to work from beautiful places by the sea or close to nature rather than in big cities and go to the office from Monday to Friday. So after work, they surf for five minutes or have an aperitif on the beach or do yoga. With this lifestyle, you have more time for yourself, for sports, and to be in contact with nature. You have objectively fewer things to do, fewer commitments, less bureaucracy; it's a suspended life. You only have to think about shopping, laundry (which you don't even do because it costs so little that it's not worth it), showering, and your next destinations, as well as the excursions to do. You need fewer material objects, and you can't buy anything because it won't fit in your backpack. And you have fewer worries because you live life more slowly.
In these months, besides being amazed at the beauty of these co-working spaces, I've had two reflections. The first one is: "How many people are living this life?" The answer is: a lot. I have always felt little understood for my interest in digital nomadism. But when I discovered that there are so many people from all over the world working from every corner of the earth, with a little laptop on their knees, ready to sacrifice comfort to turn every day of their lives into an adventure, I feel less alone. And the solidarity that arises among these digital nomads because, in the end, we are all alone in a country that is not ours, and we want to exchange a few words, find new friends, new loves, and dream that life is not just about paying bills.
The second thing I thought was: "How happy are these digital nomads?" I mean, how naturally we live like this. I say we because finally, I am one of them too. Do you remember that at the beginning of the story, I said it was always others who left? And now I am one of them, working from a co-working space on Lake Atitlan in Guatemala, then in Cusco in an equipped space where you can see all the roofs of the city and the sacred mountains, then in Palermo, the hipster neighborhood of Buenos Aires, ready to close my computer and get ready to watch a tango show. It seems so incredible and so beautiful that we are given the opportunity to work anywhere, that there are places equipped for this, and that there is a community of travelers who do it in a totally spontaneous and natural way.
But how do you do it?
I remember one day in Buenos Aires; I met an American guy, a programmer. There were about ten of us, all sitting at the same shared table in the co-working space, each with their computer, some with headphones, some with a dual screen, some with a mouse, some with a laptop stand, each in their way. All of different nationalities. All with different stories. I had left Italy a week before with my one-way ticket. I was a child in this world. Yet, I had already socialized with the whole table. So, we made some jokes during work, like colleagues. Only we weren't. "How do you do it?" the American guy asks me, arriving in Buenos Aires the night before, with the intention of living a few months in South America. And I ask him, "What?" and he replies, "To be so serene, you can tell you've been traveling for a long time!" In reality, I still had jet lag, and I had just started my first adventure without a return ticket. I had simply found my dimension, the one I had been looking for so long, and not finding it or not accepting that it was the right one for forty years had made me feel so different. And now, in that co-working space, in that wonderful place in Palermo Soho, the hipster neighborhood of Buenos Aires, I felt at ease. But not only me, everyone else, who perhaps went through the same struggle I did before accepting that it's okay to live an unconventional life.
If you want, you can do a lot of beautiful things. And not just here, but also in life.
You can:
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Non sono una digital nomad ma diciamo che lo sono stata in parte per 6 anni. Expat con un lavoro da remoto che mi permetteva fare molte cose ma con sempre una base fissa. Adoro viaggiare ma mi rendo conto che ho bisogno di una base, di un luogo fisso per creare, per non distrarmi. Diciamo che per me sarebbe ideale un nomadismo parziale, ovvero 3 mesi all'anno, ma al massimo visitando 2 luoghi. Infatti sto programmando già questa specie di nomadismo tutto mio :) Il rientro in Italia ha dato spunti ahahaha
Una newsletter che mi tocca sul personale. Per diverso tempo mi sono considerato nomade digitale e ancora oggi per evitare di dover spiegare in dettaglio la distinzione spesso a chi me lo chiede dico che per diversi periodi dell'anno sono nomade digitale, ma la realtà è che negli anni mi sono reso conto di essere lontanissimo da questa "filosofia".
Non sopporto i coworking, tranne rare e bellissime eccezioni, lavoro molto meglio da un café o se posso scegliere da una biblioteca (il luogo che mi rende più produttivo in assoluto).
Ma devo dire che, visto quello che faccio, necessito di un mio spazio privato quasi tutti i giorni.
Evito poi come la peste i quartieri più amati dai nomadi digitali, vedi Nimman Road a Chiang Mai o Canggu a Bali... sono non luoghi o almeno così la penso io.
Chiudo dicendo che purtroppo in rete si trovano tantissimi personaggi che spingono la vita da nomade digitale come fosse "lavoro da una spiaggia e faccio i soldi" oppure "Sto tutto il giorno in quel tavolino vista mare e via di... fatturare". E anche questo mi ha fatto allontanare molto dall'etichetta.